IL PELLEGRINAGGIO MEDIEVALE E LA VIA FRANCIGENA DEL SUD Il cristianesimo dei secoli medievali fu ampiamente segnato dai pellegrinaggi verso tre luoghi sacri per eccellenza, Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela, seguiti per prestigio dal santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo. A partire dall’XI secolo l’attenzione si focalizzò soprattutto verso il Santo Sepolcro di Gerusalemme, il complesso edificato a partire dal 326 dall’imperatore Costantino a ricordo dei momenti salienti della Passione di Cristo; nel giro di qualche decennio, la devozione gerosolimicentrica crebbe sino ad alimentare flussi di pellegrini sempre più cospicui verso la Terrasanta e a stimolare quelle spedizioni armate che vanno sotto il nome di crociate, considerate a ragione dagli studiosi una variante armata dello stesso pellegrinaggio. Per raggiungere la Città Santa, divenuta nella coscienza collettiva cristiana l’ombilicus mundi irrinunciabile, i fedeli europei avevano a disposizione diverse opzioni. Potevano ad esempio attraversare i territori balcanici seguendo la cosiddetta “via di Carlomagno”, una direttrice che diverrà impraticabile alla fine del Medioevo a causa della crescente minaccia ottomana. Come alternativa, potevano scendere in Italia ed imbarcarsi direttamente verso l’Oriente dai porti dell’Italia del Nord, tanto da quelli tirrenici come Genova o Pisa, quanto soprattutto da Venezia, da dove la navigazione si snodava lungo le coste dalmate. Tra la fine dell’XI secolo e la prima metà del XIII, comunque, la stragrande maggioranza dei pellegrini sceglieva di proseguire a piedi verso i porti pugliesi, che grazie all’affaire Terrasanta vissero uno dei periodi più floridi e fervidi della loro storia. Già nel 1096 parte delle milizie franche che partecipano alla prima crociata scelsero di imbarcarsi da Bari, Brindisi ed Otranto. Decine di cronache e diari di viaggio medievali dei decenni successivi ricordano, oltre a questi tre, anche i porti di Siponto, Manfredonia, Molfetta, Barletta, Trani, Monopoli ed altri ancora, in un contesto che permette alla Puglia di recuperare l’antica vocazione di ponte per l’Oriente. I pellegrini che scendevano da Roma si servivano soprattutto, come in gran parte d’Europa, della rete stradale di età romana, che rimase fondamentale per ogni spostamento sino all’età moderna. Nel Sud della penisola risultano particolarmente battute le due grandi arterie consolari del passato, la Via Appia e, in misura sensibilmente maggiore, la Via Traiana. Quest’ultima, fatta costruire dall’omonimo imperatore tra il 108 ed il 110 d.C., risultò subito più comoda poiché, attraverso Benevento – da dove si distaccava dalla più antica Appia – permetteva di raggiungere rapidamente la pianura del Tavoliere e i centri costieri pugliesi: giunti a Troia – l’antica Aecae – si poteva proseguire sino alla Litoranea Adriatica e quindi scendere lungo la costa sino a Bari oppure puntare direttamente sulla città dall’interno. Da Bari, la Traiana proseguiva direttamente alla volta di Brindisi, dove confluiva anche la via Appia, e da qui ripartiva alla volta di Lecce e di Otranto col troncone terminale denominato Traiana-Calabra. Tra XI e XIII secolo, dunque, torme di militi crucesignati e pellegrini provenienti dal Nord Europa scesero lungo l’antica Via Traiana per imbarcarsi dalla Puglia alla volta dell’Epiro o direttamente della Palestina. Una volta espletato il loro voto, essi rientravano in patria ripercorrendo al contrario il tragitto: cosí come era già accaduto nella tarda antichità, dunque, la Traiana veniva a configurarsi come il tratto iniziale di un cammino idealmente “francigeno”, il quale, dopo Roma, proseguiva verso i passi alpini ricalcando le arterie consolari della cosiddetta “via di Monte Bardone”. In ragione di ciò l’arteria assume in diverse fonti coeve la denominazione di “strata Francesca” o “Francigena, ovvero “strada percorsa dai Franchi” o comunque diretta in Oltralpe. Emblematicamente “francigeno”, tra i tanti che si possono richiamare, è il percorso del sovrano Filippo II Augusto di Francia – che, peraltro, ricalca quasi nove secoli quello di suo anonimo connazionale di Bordeaux del 333 -: sbarcato ad Otranto nel 1191 dopo un’infruttuosa spedizione crociata, il sovrano francese risale la Traiana sino a Bari, opera una piccola deviazione per Trani e Barletta e visita i celebri santuari locali; quindi riprende l’arteria romana a Troia e prosegue alla volta di Benevento, Capua, Roma e infine, lungo la Francigena del Nord, della Francia. Come ha sottolineato acutamente Franco Cardini, il noto medievista, la storia delle strade è “molto di più di una storia di tracciati, di itinerari, di insediamenti”, poiché essa è soprattutto “storia dei suoi gestori e dei suoi utenti…storia dei suoi monumenti e di strutture,…, di viandanti”. L’affermazione rimarca bene la dinamica delle percezioni che si attivava spontaneamente nei viaggiatori in marcia: nel percorso verso il sacro, un iter geografico e spirituale al tempo stesso, il pellegrino incontrava lungo il cammino numerosi edifici sacri – dai grandi santuari alle piccole cappelle di campagna -, si soffermava sulle immagini che vi erano contenute o che erano disseminati lungo le strade. Tali incontri accompagnavano il suo cammino, ne dettavano i tempi di marcia e di sosta, i momenti di preghiera. Se oggi paiono microcosmi conchiusi o isolati, a quel tempo erano parte di un più grande tessuto connettivo, legato all’interno da forti coerenze strutturali. Erano soprattutto connessi da vicendevoli ed espliciti rimandi, che i sensi dei viandanti, dilatati all’estremo dall’esperienza della marcia, erano in grado di cogliere perfettamente. Lungo tutto il percorso della Francigena del Sud, da Roma ai porti della Puglia, il passaggio dei pellegrini diretti a Gerusalemme lasciò una traccia profonda nella cultura, nelle mentalità, negli svolgimenti sociali e nelle economie dei territori che vennero ad essere coinvolti. Soprattutto, i pellegrini hanno impresso ai territori un respiro cosmopolita, palese ancora oggi nelle secolari architetture, nei corredi plastici e nelle opere pittoriche; hanno ancora determinato le direttrici stradali, influito sulle linee di sviluppo dei centri urbani e sulle modalità di sfruttamento delle risorse agricole. Anche a livello antropologico, infine, i cammini hanno influenzato le usanze e le forme religiose dei luoghi, molte delle quali rappresentano ancora oggi i riferimenti delle dimensioni culturali e dei valori di un territorio. Valorizzare un patrimonio naturalistico e culturale di tale portata rappresenta pertanto un obiettivo irrinunciabile, tanto per l’apporto di una conoscenza delle radici comuni di tutta l’Europa quanto per rendere il territorio più attrattivo nei confronti di un turismo di qualità; questo garantirebbe risvolti molto importanti per le economie locali coinvolte. La via Francigena, l’antico cammino legato ai pellegrinaggi verso mete sacre, rappresenta dunque una valida opportunità per sviluppare la comunicazione tra culture diverse, per riscoprire i territori e i loro valori ambientali e monumentali attraverso l’incedere lento dei nuovi camminatori e, in definitiva, per incoraggiare la rinascita di aree interne e/o marginali e promuovere un turismo di qualità. Col proposito di valorizzare e promuovere il troncone meridionale della Via Francigena si è attivato in anni recenti un coordinamento composto da varie associazioni (tra cui spicca, per il ruolo guida, l’Associazione Europea delle Vie Francigene (AEVF), oggi formata da oltre cento Regioni ed Enti territoriali) e dalle Regioni del Mezzogiorno (Lazio, Campania, Molise, Basilicata e Puglia). Suddetto coordinamento ha prodotto un Dossier, redatto col supporto della Società Geografica Italiana, col quale nel 2015 ha avanzato presso le competenti sedi europee la candidatura del tratto da Roma a Brindisi – denominato Via Francigena del Sud – a Itinerario culturale del Consiglio d’Europa; tale riconoscimento, già ottenuto nel 2004 dalla Via Francigena per il tratto da Canterbury a Roma, permetterà alle Regioni dell’Italia meridionale di indirizzare nella prossima programmazione comunitaria 2014-20 le necessarie azioni per la messa in sicurezza, la segnaletica, la promozione e la fruizione del grande Itinerario Culturale.   LA CHIESA DEL SANTO SEPOLCRO NEGLI ITINERARI MEDIEVALI DI PELLEGRINAGGIO Incontro di studi e ricerca storica promosso dal Club Unesco Brindisi in collaborazione con la Società di Storia Patria per la Puglia – sezione di Brindisi nell’ambito delle Giornate europee del Patrimonio. Brindisi, 18 settembre 2015, Museo Archeologico F. Ribezzo   SAN GIOVANNI AL SEPOLCRO IN BRINDISI E L’ARTE DEI PELLEGRINAGGI MEDIEVALI Giuseppe Marella (Viator Studies Center – Research and Development of Vie Francigene and Historical Routes – Università del Salento) Con la conquista crociata del 1099, Gerusalemme torna finalmente nel corpo unito della cristianità e si impone nuovamente come il centro ideologico assoluto della coscienza occidentale. L’Europa medievale può aggrapparsi nuovamente alla tomba di Cristo, riscattare il Peccato dei Progenitori e sperare nella Salvezza Finale. La Chiesa romana inizia a promuovere e coordinare i flussi dei pellegrini in Terrasanta, che registrano un aumento esponenziale, e chiama ripetutamente a raccolta altri cavalieri per soccorrere con le armi i fratelli in Outremer. Gerusalemme, dunque, diviene nel XII secolo l’ombilicus mundi che permea ogni sfera dell’agire. Tale contesto alimenta il fenomeno delle imitationes architettoniche della basilica del Santo Sepolcro, che si moltiplicano in modo esponenziale tra il 1099 e la capitolazione di Hattin del 1187, che segna il ritorno musulmano nella Città Santa. Grazie alla sua posizione geografica e alle caratteristiche geomorfologiche del suo porto, la città di Brindisi viene coinvolta pienamente nell’affaire Terrasanta e torna ad essere la naturale testa di ponte per l’Oriente come già in età romana. Torme di militi crucesignati e di semplici pellegrini scendono copiosamente lungo le antiche arterie consolari Appia e Traiana – quest’ultima denominata significativamente nei documenti “strata francesca o frangigena – e vi trovano facilmente imbarco per l’Epiro o direttamente per la Palestina, assieme a tutte le strutture logistiche e ricettive necessarie alle loro esigenza: domus di ordini monastici, chiese ed ospizi, ed ancora case commerciali, fondachi e depositi vari di merci, sportelli bancari e di cambiavalute ed altro ancora). Il fermento cittadino coevo è rievocato a qualche secolo di distanza dal carmelitano Andrea Della Monaca, in una pittoresca e un po’ nostalgica descrizione: “Venivano da tutte le parti della Christianità innumerevoli Peregrini, per andare à visitare il Santo Sepolcro del nostro Redentore in Gierusalem, i quali necessariamente nell’andare, ò nel ritornare, capitavano a Brindisi per imbarcarsi, e talvolta vi facevano lunga dimora …”. Tanti sono dunque i pellegrini e i crociati che transitano da Brindisi, già a partire dalla prima spedizione crociata (1097); le fonti ricordano assieme a costoro una folla variopinta di vescovi e cavalieri, sovrani ed imperatori, tutti in cerca di imbarco per l’Oriente o di rientro dallo stesso. Vale la pena di ricordare l’inglese Sevulfo, che nel 1102 scampa ad un naufragio nei pressi di Monopoli, giunge con la sua nave a Brindisi e, dopo le necessarie riparazioni, riprende la rotta per la Terrasanta; ed ancora il sovrano Filippo II Augusto di Francia, che sbarcato ad Otranto nel 1191 dopo un’infruttuosa spedizione crociata, percorre un tipico itinerario francigeno risalendo la Traiana sino a Bari, devia a Trani e Barletta per visitare i celebri santuari locali, riprende l’arteria romana a Troia e prosegue alla volta di Benevento, Capua, Roma e quindi della Francia. Nel corso del XII secolo si insediano a Brindisi gli ordini monastico-militari sorti a Gerusalemme all’indomani della conquista crociata: Templari, Ospedalieri di San Giovanni e Canonici regolari del Santo Sepolcro. Costoro convogliano le derrate agricole dei loro centri interni per imbarcarle verso le loro case capitane in Terrasanta, e gestiscono i servizi di accoglienza e di trasporto marittimo per pellegrini e crociati accanto agli operatori delle Repubbliche marinare. Cosí, come accade nelle altre importanti città portuali della Puglia, finiscono col segnare il volto urbano con una fitta rete di edifici e proprietà, oggi in gran parte scomparsa. Di tale presenza, la chiesa di San Giovanni al Sepolcro è al tempo stesso l’unica testimonianza monumentale sopravvissuta e la prima a comparire nei documenti. Nel 1128 un diploma di Onorio III cita “in Apulia, in civitate Brundisina, ecclesiam Sancti Sepulchri et ecclesiam Sancti Laurenti cum omnibus pertinentiis earum” tra le proprietà confermate a Guglielmo priore dei Canonici Regolari del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Il documento non chiarisce se le pertinenze comprendessero un ospedale per i pellegrini, ma l’eventualità non è da scartare in virtù dei precetti sull’ospitalità osservati dai Canonici. Nelle successive bolle di Celestino II (1144) e di Lucio III (1182), e in altre fonti sino alla fine del XIV secolo, la comunità primitiva risulta ancora titolare. Con i decreti di sospensione di Innocenzo VIII (1484) e Pio IV (1560), che imponevano ai Canonici Regolari lo scioglimento e la cessione dei beni all’Ordine di Malta, la chiesa entra nel patrimonio della ricca commenda melitense cittadina, quest’ultima sottoposta alla precettoria di Barletta. La fase di profonda decadenza che Brindisi conosce in età moderna induce la comunità melitense a trasferirsi presso la sede magistrale di Maruggio, e a disinteressarsi dei due grandi comprensori che possedeva in città, quello di San Giovanni prope litus maris e l’altro gravitante attorno all’area del Santo Sepolcro. Cosí il Santo Sepolcro fu privato della manutenzione ordinaria e andò rapidamente in rovina. Alla chiesa si mette mano probabilmente solo dopo il terribile terremoto del 20 febbraio del 1743, che dovette sconquassarla ulteriormente. Un preventivo di spesa per restauri compilato nel 1759 per conto di tale Agostino De Blasi procuratore della commenda o sia grancia di San Giovanni di questa suddetta città, riporta per la prima volta la nuova titolazione, cara ai melitensi, di San Giovanni del Sepolcro, […] nel luogo detto la strada del Sepolcro. La rinascita dura solo pochi decenni, tanto che gli eruditi locali e viaggiatori stranieri del secolo successivo ne lamentano nuovamente le cattive condizioni. Per porvi definitivamente rimedio, il 15 aprile 1868 il Comune di Brindisi acquista il tempietto ed avvia finalmente nel 1881 un grande cantiere di restauro, al termine del quale, nel 1883, l’edificio può ospitare il nuovo Museo Civico. Altri interventi di consolidamento sono stati effettuati nel 1954, per risarcire i danni provocati dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, e, dopo il trasferimento del Museo (1955), ancora negli anni Novanta del secolo, che l’hanno reso nuovamente fruibile al pubblico. Stante la carenza delle fonti, un valido terminus ante quem per delineare la data di edificazione è il portale monumentale Nord, ricondotto agli inizi del XII secolo per la consonanza stilistica con i fregi del portale maggiore della basilica di San Nicola di Bari. Agli ultimi anni dell’XI secolo o ai primissimi del successivo, infatti, sembrano volgersi decisamente gli ornati degli altri due portali e i capitelli interni. Altamente probabile è pertanto una diretta committenza dei Canonici Regolari del Santo Sepolcro, che a Gerusalemme avevano il compito di ottemperare alla liturgia della mater ecclesiarum. Come gli studi hanno ampiamente sottolineato, la morfologia della chiesetta brindisina palesa compiutamente uno stretto legame proprio con l’Anastasis – la rotonda della “Resurrezione” – del Santo Sepolcro di Gerusalemme, il santuario edificato dall’imperatore Costantino per esporre la Tomba di Cristo. In particolare, la copia brindisina riprende l’assetto che tale complesso ebbe al termine dei restauri condotti tra il 1034 e il 1048 dagli imperatori Michele IV Paflagonico e Costantino IX Monomaco, allorché risultava ormai privo della basilica del Martyrium e tutto accentrato attorno alla rotonda dell’Anastasis. In suddetta circostanza quest’ultimo ambiente, come sappiamo dalle fonti, venne dotato di un discreto coro absidato ad Est, poi sostituito dal ben più monumentale Chorus Dominorum nei rimaneggiamenti crociati degli anni Quaranta del XII secolo. A Brindisi un coro più grande dell’attuale risulta nelle planimetrie e in taluni documenti dell’Ottocento, e si pone dunque come citazione diretta del modello orientale. Come accade nelle numerose copie occidentali, la piccola architettura vuole riverberare la molteplicità dei significati simbolici del santuario gerosolimitano, soprattutto nella reiterazione della forma circolare e del numero otto. Allargando ad un contesto più ampio, il monumento brindisino si inserisce nella lunga sequenza di memorie architettoniche gerosolimitane distribuite senza soluzione di continuità presso tutte le vie di pellegrinaggio occidentali. Un pellegrino d’Oltralpe che attraversava l’Italia nel XII secolo, ad esempio, poteva incontrare imitazioni della rotonda del Santo Sepolcro in Piemonte (l’abbazia di San Michele), presso Bergamo (la Rotonda di San Tomé in Almenno), poi, scendendo lungo la via Francigena, presso Piacenza, ancora ad Acquapendente, ovviamente a Roma e quindi a Brindisi. In tali copie, in virtù di un patrimonio cognitivo educato al simbolismo delle celebrazioni liturgiche e di un atteggiamento allegorico spontaneo, i fedeli percepivano con immediatezza tutta una trama di significati e di rimandi religiosi, a partire dal messaggio di Salvezza finale legato al sepolcro e alla Resurrezione. Inoltre, le repliche offrivano la possibilità di un pellegrinaggio quantomeno mentale a coloro che erano impossibilitati a viaggiare, o, presentandosi ai fedeli come un’anticipazione delle gioie visive della Terrasanta, sollecitavano costoro alla partenza. Nel caso degli ordini sorti in Terrasanta, le architetture memoriali svolgevano anche un compito propagandistico, in quanto capaci di veicolare con immediatezza la propria missione in Terrasanta e, in ultima battuta, attrarre elargizioni. In ragione di ciò si spiega la scelta dell’opzione circolare per tutte le sedi europee più prestigiose, vedi per i Templari quelle di Londra e Parigi, per i Giovanniti quelle ancora di Londra e di Pisa, e per i Canonici Regolari quella appunto di Brindisi. All’esterno del tempietto, nei pressi del portale occidentale, una minuta incisione in un concio reca l’immagine di una tipica drakkar, la formidabile nave “drago” vichinga dalla prua con testa zoomorfa. Il vascello è paragonabile agli esemplari immortalati nell’arazzo di Bayeux (1066) o in un manoscritto di Mattew Paris (metà XIII secolo), a testimonianza del loro utilizzo anche nel medioevo maturo per il trasporto dei pellegrini in Terrasanta. Già simbolo paleocristiano del viaggio salvifico dei fedeli tra le insidie del peccato, il segno allude chiaramente al viaggio via mare verso l’Oriente, la crux transmarina, e si connota come espressione della religiosità spontanea e popolare dei pellegrini di passaggio. Imbarcarsi nel Medioevo era impresa rischiosissima: si andava incontro ad un destino ignoto, con le tempeste marine, i naufragi e la morte sempre in agguato. I naviganti si ponevano sotto la protezione di Dio e si affidavano al Suo giudizio: “in nome di Dio facemmo vela”, recita la formula propiziatoria dei loro diari di viaggio. I palmieri corroboravano lo spirito con la penitenza e le paure per giungere in Terrasanta in uno stato di grazia interiore, e al ritorno in Occidente lodavano il Signore con tutto il cuore per lo scampato pericolo. Superba e particolareggiata è la galea medievale graffita nell’abbazia di Santa Maria di Cerrate, di forma allungata e a propulsione mista, con alberi, vele e remi. Sul Gargano la nave è incisa ben due volte nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Monte Sant’Angelo e nella grotta di Cagnano Varano, dove lo scafo è significativamente iscritto in un piede quasi a sottolineare la valenza penitenziale del viaggio.   LA VIA APPIA TRA TARANTO E BRINDISI. STORIA, PERCORSI E ARCHITETTURE Luigi Oliva (Viator Studies Center – Research and Development of Vie Francigene and Historical Routes – Università del Salento) Premessa: L’approccio alla conoscenza di un territorio è un’operazione richiamata ormai con una certa frequenza nel dibattito politico-culturale. Spesso però questa pratica viene propagandata con eccessiva leggerezza anche in sede di pianificazione, al punto che, nel linguaggio corrente, si tende sempre più spesso ad invertire il rapporto tra il luogo e la sua immagine. Nel caso sottoposto a studio, la scelta di una strada, una lunga e famosa consolare romana come l’Appia, quale espediente per sperimentare una forma di conoscenza più vicina all’approccio storico integrato attuale, nasce dall’esperienza di ricerca nel campo delle strutture legate al pellegrinaggio medievale, nelle loro forme ideali e aspetti reali. Il tema del pellegrinaggio, nella sua sintesi di religione/filosofia e storia/geografia, col procedere della ricerca su temi e declinazioni, si è ben presto rivelato quale meccanismo fondamentale per scardinare i vincoli dell’atemporalità antropologica e della relatività archeologica, riportando la ricostruzione verso una forma di racconto del luogo che si avvicina agli strumenti della storia, alle sembianze del tempo che si cala sullo spazio e interagisce con esso. In questo schema interpretativo, la via Appia, quale direttrice pressoché stabile nel tempo e in molti tratti preesistente a sé stessa nella sua valenza di arteria vitale di collegamento e trasporto, è apparsa fin dall’inizio come un ordito importante su cui costruire la trama di innumerevoli vicende che raccontano i passaggi degli uomini, e con loro, la capillarizzazione e l’adattamento della cultura nel suo incontrare e trasformare i luoghi.   La Via Appia: cenni storici e morfologici L’Appia o regina viarum, venne iniziata intorno al 312 a.C. come prima grande via censoria romana per unire Roma all’importante centro campano di Capua. Successivamente il tracciato venne prolungato in diverse fasi, fino a Benevento, Venosa, Taranto e Brindisi (oltre il 190 a. C.), per un percorso totale di 360 miglia svolto prevalentemente in rettilineo, con una carreggiata basolata larga circa 3 metri affiancata da percorsi pedonali. Il tratto finale, posto tra due centri estremamente importanti (Taranto e Brindisi), per la sua rilevanza, costituisce un’eccezione alla dimensione prevalentemente locale attribuita ai percorsi trasversali, istmici, in ambito pugliese, rispetto a quelli longitudinali, secondo una definizione radicata del sistema infrastrutturale locale che data alla metà del XX secolo. La ricerca sulla morfologia, sulla datazione e sull’esatto sviluppo dell’Appia romana tra Taranto e Brindisi ha visto impegnati diversi studiosi, i quali hanno progressivamente disegnato un quadro indiziario che può essere senza dubbio considerato esaustivo nell’economia di questo saggio, seppur considerando le diverse varianti e restando aperti ad ulteriori risultanze documentarie e soprattutto archeologiche. Le principali evidenze riscontrate nelle fonti edite sono state oggetto di ricognizione in situ. Ciò che colpisce è l’andamento assolutamente rettilineo e diretto dei tratti noti che congiungono le stazioni intermedie o i centri di riferimento. Inoltre, a differenza di quanto poi si ebbe nel corso del Medioevo o successivamente, il cursus publicus in presenza di grandi insediamenti fortificati, prevedeva un andamento esterno tangenziale alle mura, in alternativa all’attraversamento dell’abitato (si veda Oria, Masseria Vicentino, Scamnum e la stessa Taranto), consentendo di tenere alta la velocità media degli spostamenti interregionali. Tali caratteristiche non furono conservate in epoca medievale, quando nuovi insediamenti e santuari sorsero in aree distanti dal tracciato e collegate con questo tramite percorsi minori, spesso impervi. A ciò si aggiunsero le difficoltà di gestione, legate alla manutenzione parcellizzata dei tratti e ad una forte rinaturalizzazione dei territori, con estesi fenomeni di impaludamento (regio pestifera nel XII secolo) e riforestazione (foresta oritana). L’Appia medievale, si adattò alla disgregazione tardoantica e altomedievale per poi riacquistare importanza dal periodo svevo. In seguito, la sua scansione venne influenzata dalla ripartizione feudale del territorio in età angioina ed aragonese, prima della fase moderna, quando i grandi assi infrastrutturali tornarono ad essere le matrici di gestione del controllo sul regno e di organizzazione dei latifondi agricoli.   I centri maggiori e alcune testimonianze Il tratto finale che collega i due mari, è invece fortemente caratterizzato dall’egemonia culturale ed economica delle due estremità portuali. A Taranto e Brindisi, infatti, si registrano i primi ospedali degli ordini cavallereschi; entrambe eleggono come patroni dei santi il cui culto si ritrova ampiamente attestato nel circuito culturale di pellegrinaggio o in quello dei crucesignati; entrambe risultano più volte citate dalle fonti documentarie ed odeporiche come porti d’imbarco nodali per i contatti con la Terrasanta. La via Appia intorno a Taranto ricalcava in parte l’attuale via o tratturo tarentino da Castellaneta-Palagiano/ad canales. Su questo versante, ad ovest della città, grazie alla disponibilità di acque dolci sotterranee affioranti a poche centinaia di metri dalla costa o raccolte da gravine e lame sorsero centri agricoli (Masseria Miraglia, Montello, La Riccia, ecc..), monasteri (S. Maria della Giustizia, S. Maria del Galeso, Capppuccini, S. Chiara alle petrose, San Bruno), mulini (presso l’alveo del Tara, o sull’isola di S. Nicolicchio), metatae (Masseria della Mutata), i centri di raccolta delle derrate alimentari lungo la viabilità primaria. La chiesa rupestre di Santa Chiara alle Petrose è un sito molto ricco, la cui rilevanza nel contesto viario si riconduce a tre elementi: la presenza di un affresco tardo ma palinsesto raffigurante un santo pellegrino (San Giacomo); la diffusa presenza di iscrizioni e disegni graffiti raffiguranti navi che richiama gli imbarchi dalla città verso le altre coste mediterranee (databili al XIV secolo, cfr. Grotta delle Navi presso la Masseria S. Angelo, Massafra; graffiti sull’esterno di S. Giovanni al Sepolcro, Brindisi); la prossimità al porto e ad un’altra nota struttura ricettiva: l’Hospitium di Santa Maria della Giustizia. Per quest’ultimo complesso monumentale è ancora oggi diffusamente accolta la tesi che lo ricollega ad una concessione del 1119 in cui Costanza e suo figlio Boemondo II, donarono al monastero greco di S. Pietro una terra . L’assetto architettonico attuale richiama la temperie culturale tardoangioina, con episodi di pregio ascrivibili all’architettura del XV e del XVI secolo. Proeguendo attraverso il ponte dentro la città, i numerosi edifici di culto attestati dalle fonti, i monasteri urbani, gli ospedali, dovevano offrire sicuramente un panorama ricco e variegato agli occhi dei viaggiatori come si legge nella cronaca di Bernardo Monaco, imbarcatosi da Taranto per la Terrasanta nell’869 o nelle rare descrizioni medievali. Una bolla di Pasquale II, del 15 febbraio 1113, indirizzata al fondatore dell’Ordine di San Giovanni, Gerardo, attesta la presenza a Taranto di un ospedale gerosolimitano di cui, persa ogni traccia. Nella Città vecchia, la Cattedrale che ospita le reliquie di San Cataldo, a sua volta imbarcatosi per la Terra Santa, taumaturgo e protettore dei naviganti, fu meta di pellegrinaggi a partire dall’epoca normanna fino a tutta l’Età Moderna. Un’immagine del Santo è raffigurata a fresco su una delle colonne della basilica della Natività a Betlemme, ed a lui erano dedicati importanti monasteri (Palermo, Pisa, Venezia) e strutture portuali (Bari, Lecce) che attestano un culto sostenuto dai normanni e diffuso soprattutto in ambito benedettino, legato alla marineria mediterranea ed al viaggio verso la Terrasanta. Sulla costa settentrionale del Mar Piccolo, lungo il segmento esterno dell’Appia, la masseria La Mutata costituisce un riferimento immediato ai metata romani, le stazioni annonarie. Un altro metata si incontra a nord del secondo seno del Mar Piccolo, nel toponimo dell’ex monastero dei Ss. Pietro e Andrea in Mutata, oggi trasformato in struttura alberghiera. L’abbazia si fa risalire alle dipendenze del monastero di S. Andrea in Insula Parva (oggi San Paolo). La basilica, dopo la rimozione delle superfetazioni e dei pur pregevoli interventi barocchi, mostra la sua struttura scarificata, ad impianto cassinese trinave con absidi semicircolari estroflessi. Nel catino absidale è stati riportati alla luce parte di un ciclo di affreschi bassomedievali di pregevole fattura. Grottaglie, centro di un importante feudo arcivescovile, sorse dall’aggregazione delle popolazioni dei villaggi rupestri circostanti, abbandonati al crepuscolo del Medioevo per le mutate condizioni agricolo-pastorali. L’assetto urbano di Grottaglie, città di fondazione bassomedievale, manifesta più di altri i segni di quella visione profondamente simbolica dell’uomo medievale, nella cristallina dislocazione delle strutture religiose ed assistenziali, in relazione alle porte, agli attraversamenti, alle esigenze della comunità e dei viaggiatori. Nel suo territorio è attestato in età moderna un hospitium peregrinantium in rupe, nella lama del Fullonese. Il centro urbano era collegato alla via Appia dal Tratturello Tarantino, che collegava i territori di Castellaneta, Palagiano, Taranto e Grottaglie, dove si univa al Tratturello Martinese. Si tratta di un passaggio che attesta la continuità esistente tra le vie storiche ed il sistema dei tratturi per la transumanza e che ricopre un ruolo logico importante per completare la fase moderna della storia del territorio e della cultura insediativa. Il tratto seguente, ora scomparso, seguiva probabilmente il corso di un antico sistema viario realizzato tra IV-IIII a.C., tangente a una serie di gravine, che proseguiva verso sud-est attraversando l’area occupata da Masseria Vicentino Piccolo-Masseria Vicentino Grande, fino all’Appia Antica. Presso le due masserie Vicentino sono emersi i resti di una stazione di posta intermedia riportata col nome greco di Mesochoro nella Tabula Peutingeriana. Nonostante l’abbandono in età tardoantica della città messapica, nel corso del Medioevo le ripresa delle colture, la confluenza di collegamenti diretti tra centri e agglomerati maggiori (Grottaglie, Monteiasi, Monteparano, Oria) e l’esigenza di controllo militare del territorio mediante lo sviluppo di presidi fortificati (kastellia, kastra o pyrgoi), assicurarono la continuità insediativa nell’area fino alle soglie dell’Età Moderna. La città di Oria, di origine messapica, per la sua posizione strategica fu per tutta l’antichità e gran parte del Medioevo la tappa intermedia per eccellenza tra Taranto e Brindisi. Sede episcopale dalla fine del IX secolo, si distinse in ambito bizantino e ortodosso per la venerazione della figura e la conservazione, nella cattedrale, delle reliquie di San Barsanofio. L’anacoreta egiziano vissuto presso Gaza è una figura di rilievo per il monachesimo orientale ed esercitò sicuramente una certa attrazione sui pellegrini romei provenienti dalle coste meridionali del Mediterraneo. La comunità di Oria attraversò, per tutto il Medioevo, un periodo di relativa prosperità, fungendo da perno viario e commerciale del più importante percorso istmico pugliese. Nella città, la Cattedrale e le chiese attestate al Medioevo hanno subito pesanti rifacimenti in epoca barocca. Lungo la viabilità interna, nel territorio circostante posto al centro di una sterminata area silvicola, si collocano alcuni episodi della religiosità medievale: la cripta di San Mauro sotto il convento di S. Antonio da Padova; della Madonna della Scala e di Sant’Agostino presso la masseria Le Salinelle sulla via per Manduria; il santuario di San Cosimo alla Macchia. Oltre Oria, attraversando la foresta oritana, la via Appia costeggia uno degli edifici religiosi più rilevanti per il contesto medievale. Si tratta della chiesa di S. Maria di Gallana, nell’omonimo casale, forse appartenuto in epoca romana alla gens Gerellana, sviluppato in età altomedievale per ragioni strategiche sul limes tra longobardi e bizantini. Il confronto con altri edifici a cupola in asse, in ambito locale (S. Pietro di Crepacore) o mediterraneo (S. Giovanni in Sinis) porta a supporre almeno due fasi costruttive tra il IX e l’XI secolo. L’insediamento messapico di Scamnum (Muro Tenente) è oggi un parco archeologico nel quale ogni anno prosegue l’attività di scavo. Da qui la via Appia puntava direttamente verso Mesagne, anch’essa di origine messapica, che conservò nelle epoche successive il ruolo strategico di snodo infrastrutturale nonostante le alterne fortune dell’Appia e le devastazioni subite per effetto del sisma del 1743. La via Appia attraversava la città lungo un percorso sul quale sorge la basilica paleocristiana di San Lorenzo a tre navate, in cui recenti restauri hanno recuperato alcuni affreschi altomedievali. Nell’area della Chiesa matrice sorgeva la chiesa di San Nicola Vetere, ricostruita nel XIV e poi nel XVI e dedicata a tutti i santi, e l’Hospitium, ricostruito nel ’500 per adibirlo ad Ospedale dei Poveri. Nel tratto tra Mesagne e Brindisi, il rinvenimento di due tracciati complanari che affiancano il percorso ricostruito dai topografi, è stato ricondotto alla funzione di strade di servizio per collegare le strutture produttive e gli insediamenti che si addensarono intorno alla consolare. Nella fascia sud-orientale del tracciato si svilupparono i siti di Vagnari e di San Felice, dove è stato rinvenuto un grande saltus imperiale, al cui interno ricadeva sia il villaggio a vocazione produttiva di Vagnari sia la villa di San Felice, forse sede del procurator imperiale. Altrettanto prossimi al tracciato dell’Appia risultano l’insediamento di Botromagno, dove, sul finire del II sec. a.C., si impostò un villaggio collegato alla villa indagata sulla sommità della collina, rimasta in uso fino alla metà circa del I sec. d.C.; a Sud del tracciato della strada, l’impianto artigianale primo-imperiale di San Gerolamo. La città di Brindisi conserva poche vestigia riguardanti la prima fase di romanizzazione, dalla fondazione della colonia fra il 246 e 244 a.C. alla fine del II secolo a.C. Più evidenti sono invece i manufatti relativi alla fase fra la fine del II e la metà del I secolo a.C., caratterizzata dallo sviluppo degli insediamenti nelle campagne e da un’occupazione del territorio estremamente programmata e razionale. In Età Imperiale tre periodi sono scanditi da altrettanti cambiamenti: la seconda metà del II secolo, che vede la crescita delle ville; la metà del IV secolo che segna una drastica diminuzione nel numero e nelle dimensioni degli abitati (a questa epoca viene fatta risalire la martirizzazione di San Leucio); la fine del V e gli inizi del VI secolo, con la disgregazione dei territori rurali e la contrazione urbana, sottolineata dalla perdita della diocesi. Come per la colonia Neptunia a Taranto, anche per Brundisium la via Appia costituisce il decumanus maximus e si presenta basolata, dalla larghezza di m 4,50 con crepidines rilevate ai lati. L’epoca medievale è invece segnata da una decisa ripresa che culmina nell’età normanno-sveva, quando il fiorire delle rotte commerciali, i flussi dei pellegrini e dei crociati e le mire di espansione della Corona ne sancirono il ruolo nodale lungo la costa adriatica. Nel centro storico, la chiesa di San Giovanni al Sepolcro, appartenuta all’Ordine del Santo Sepolcro, è senza dubbio il monumento che testimonia il legame diretto con le sponde meridionali del Mediterraneo , in particolare con la Terrasanta. In origine il complesso comprendeva anche una struttura ricettiva, poi demolita. La chiesa è considerata la più fedele riproduzione in scala dell’Anastasis del Santo Sepolcro di Gerusalemme, il santuario costantiniano cuore della cristianità medievale. Al di fuori della città, la chiesa di S. Maria del Casale venne eretta dal principe di Taranto Filippo d’Angiò agli inizi del XIV secolo, per celebrare una miracolosa icona della Vergine. L’esterno è caratterizzato dalla bicromia tra arenaria grigia e dorata, di gusto orientale mentre l’interno si sviluppa secondo un sobrio modello francescano ad aula unica. Tra gli affreschi spiccano il Giudizio Universale di Rinaldo da Taranto sulla controfacciata (inizi XIV secolo) e l’Albero della Croce sulla parete sinistra (metà XIV secolo), opera ispirata ai precetti di San Bonaventura. Nella zona absidale, all’interno dell’affresco delle Marie al Sepolcro campeggia una delle rarissime riproduzioni occidentali della Pietra dell’Unzione, il letto di marmo rosso su cui Cristo fu avvolto nel Sudario prima della sepoltura. Essa fu venerata ad Efeso dai pellegrini sino al 1170 circa, e poi a Costantinopoli fino al saccheggio crociato della città del 1204.   ARCHEOLOGIA DEL PELLEGRINAGGIO. ALCUNE RIFLESSIONI AL MARGINE DELL’INCONTRO DI BRINDISI Marco Leo Imperiale (Viator Studies Center – Research and Development of Vie Francigene and Historical Routes – Università del Salento) Sono passati esattamente 20 anni dalla pubblicazione di un famoso articolo di John Stopford che, tra i primi, tentò di definire alcune linee guida sintetiche per gli archeologi che avrebbero voluto o dovuto occuparsi di pellegrinaggio cristiano. La domanda che si poneva l’autore riguardava chiaramente quali fossero gli ambiti d’indagine nei quali l’archeologia potesse formulare tesi sul fenomeno del pellegrinaggio cristiano, attraverso la cultura materiale, lo studio degli insediamenti e tutto ciò che attiene alla sfera metodologica delle discipline archeologiche. Il lavoro di Stopford è complesso ma, volendo sintetizzare al massimo, possiamo ricordare alcuni dei temi sui quale l’autore si sofferma: – Lo studio delle strade, spesso indicate come vie di pellegrinaggio o di commercio. Noi diremmo tout court le strade come vettore di mobilità. Strade che spesso, come nel caso delle carraie scavate nel banco di roccia affiorante, sono dei veri e propri palinsesti storico-archeologici, a volte di difficile datazione ed inquadramento delle varie fasi di uso. Inoltre, l’archeologia studia le strade e il loro rapporto con gli insediamenti, analizzando percorsi, distanze, distribuzioni di oggetti come indicatore, anch’essi, di scambi e di circolazione di uomini e merci. – Stopford annovera lo studio delle strutture sorte in prossimità dei percorsi ad uso dei pellegrini. Pensiamo alle infrastrutture di vario tipo, agli hospitalia e ospizi, allo studio delle cisterne e in genere all’approvvigionamento idrico, delle fonti d’acqua che si trovano durante il cammino, e cosí via. – studio dei santuari (come erano organizzati, che rapporto vi fosse tra gli spazi nelle chiese e il flusso di pellegrini che fruivano del sacro, ad esempio) e poi ancora lo studio dei “paesaggi sacri” (sacred landscapes) che attiene a forme di “modificazione”, di “mutamento” di intere porzioni di paesaggio antropico quando un luogo specifico veniva investito di uno specifico interesse di culto da parte di devoti e pellegrini. Per fare un esempio molto vicino a noi pensiamo per esempio al santuario di Santa Maria di Leuca, che a partire dal Tardo Medioevo, diede l’avvio a una serie di nuovi percorsi in tutto il Salento meridionale o meglio di risemantizzazione di percorsi più antichi e varie chiese medievali vennero percepite da parte dei devoti come tappe di avvicinamento al santuario de Finibus Terrae. – Gli archeologi possono studiare i resti antropologici dei pellegrini, rinvenuti sia in luoghi di accoglienza quali ospizi e hospitalia, oppure sepolti nei cimiteri dei loro luoghi d’origine anche a distanza di anni dall’avvenuto pellegrinaggio, sepolti coi i simboli del viandante. Essi ci danno informazioni preziosissime sulle malattie – possibili cause di morte – e quindi sui motivi per i quali ci si metteva in viaggio, sul valore taumaturgico attribuito a questo o a quel luogo di culto, a questo o quel santo. Scavando gli hospitalia dei centri di pellegrinaggio, inoltre, gli archeologi entrano in contatto con un vero e proprio campione demico dei frequentatori di un santuario. Infine, l’archeologia indaga il pellegrinaggio attraverso lo studio degli oggetti legati alla devozione, su alcuni dei quali mi soffermerò in questa relazione. Tra gli indicatori archeologici più efficaci per comprendere il pellegrinaggio nel Medioevo, ovvero la mobilità a scopo devozionale in questo periodo, ci sono proprio i signa peregrinorum, piccoli manufatti molto spesso realizzati in metallo che fungevano da eulogia (benedizione), ricordo dei luoghi santi visitati e del culto al quale i pellegrini erano devoti, infine prova tangibile dell’avvenuto pellegrinaggio. Si tratta di piccoli distintivi in lega di piombo, in pergamena o in stoffa che potevano essere appuntati sulla bisaccia, sul mantello o sul petaso, il cappello a larghe tese con il quale i viandanti si difendevano dal sole e dalle intemperie. Il termine signa con il quale essi sono spesso menzionati nelle fonti medievali ben individua il valore quasi di ’segno di riconoscimento’ che qualificava coloro che li esibivano in quanto viaggiatori per devozione. Essi rappresentano la testimonianza visuale con la quale il pellegrino rivendicava una identità nuova. Egli aveva sfidato i pericoli di un lungo viaggio, pregato sulla tomba del santo o davanti ad un’immagine miracolosa, aveva vissuto un’esperienza di marginalità sociale, esibendo infine il segno della rigenerazione dai propri peccati. Cosí, il devoto di ritorno da Santiago de Compostela ostentava sull’abito il pecten maximum, la conchiglia di San Giacomo, o sue riproduzioni in metallo; il pellegrino che tornava da Roma recava sugli abiti l’effigie dei Santi Apostoli Pietro e Paolo o di una delle basiliche visitate e, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, una replica della Veronica, la reliquia romana che più di altre fu oggetto di eccezionale venerazione. La diffusione di questa pratica e di questa categoria di oggetti, nel tardo Medioevo assunse un rilievo straordinario in Europa. Per intenderne la portata ricorderemo che nell’abbazia benedettina di Einsiedeln, in Svizzera, nel 1433 erano state vendute ben 130.000 insegne e grossomodo, nel 1492, lo stesso numero era stato distribuito ai pellegrini nelle adiacenze del santuario bavarese di Altötting, dove una statua miracolosa della Vergine pochi anni prima aveva compiuto guarigioni prodigiose. In Puglia le segnalazioni di insegne di pellegrinaggio sono ancora piuttosto scarse, nonostante i pochi manufatti rinvenuti provengano da scavi archeologici e quindi siano correlati di informazioni sulle modalità di rinvenimento, elementi cronologici relativi all’utilizzo e il successivo abbandono di tali oggetti. Una insegna dei Santi Pietro e Paolo (che chiamiamo quadrangula), proveniente quindi dalla Basilica di san Pietro a Roma, è stata rinvenuta durante indagini archeologiche a Siponto, città costiera indicata nei resoconti di viaggio come uno degli scali portuali utilizzati dai pellegrini diretti in Terrasanta. Non è escluso che appartenesse ad un pellegrino che dalla città pugliese avrebbe potuto prendere il mare alla volta dei Luoghi Santi o, ancora, forse meno probabilmente, ad un abitante della città sipontina. In quanto a reperti rinvenuti in Puglia, cito brevemente le cinque ampolline provenienti da vari contesti della parte meridionale della regione. Abbiamo già avuto modo di discuterne recentemente nel bel convegno organizzato dalla Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Brindisi, sull’età federiciana in Terra di Brindisi. Uno di questi manufatti è stato rinvenuto proprio nella città che oggi ci ospita, due a Quattro Macine, un villaggio medievale abbandonato sito non lontano da Otranto, una a Roca e l’ultima a Laterza durante i lavori di restauro di un’abitazione del centro storico. Come abbiamo già avuto modo di dire le ampolle erano destinate a raccogliere poche gocce di una sostanza investita di un potere miracoloso (acqua benedetta, olio che ardeva presso le tombe di santi o altri materiali che entrati a contatto con il sacro, ne avevano acquisito la virtus). A parte gli oggetti rinvenuti in Puglia, la nostra regione ospita due dei principali centri di pellegrinaggio del Medioevo, ovvero il santuario di San Michele Arcangelo sul Gargano e la basilica di San Nicola di Bari. Tentiamo di capire se anche in relazione ad essi si producessero queste famose “insegne di pellegrinaggio”. Noi conosciamo molti signa peregrinorum medievali relativi a San Michele Arcangelo. Essi provengono esclusivamente, almeno per quanto acquisito fino ad ora, da due santuari francesi: il famosissimo Mont-Saint-Michael, oggi meta turistica di portata internazionale anche per il noto fenomeno delle maree, e il piccolo oratorio di Saint-Michel d’Anguilhe, in Alta Loira. Un centro di pellegrinaggio molto poco conosciuto ma anch’esso di straordinario valore paesaggistico. E’ possibile che, invece, non si producessero ’insegne di pellegrinaggio’ sul santuario garganico, a favore forse di altri tipi di souvenir. Come sappiamo, almeno a partire dal XVII secolo, è documentato l’uso di acquisire “ruvidi sassi” prelevati dalle pareti della grotta, e da tenere “in pregio quasi di sagre reliquie”. Di certo, questa pratica doveva essere molto più antica e almeno a partire dal tardo medioevo sappiamo che in loco si era andata sviluppando una fiorente statuaria a soggetto micaelico, che ovviamente sfruttava la pietra cavata dal Monte. A questo proposito sappiamo che nel 1475, Ferdinando I d’Aragona confermava a Monte S. Angelo il privilegio legato alla produzione di tali manufatti per tutto il Regno di Napoli, segno che le immagini a tutto tondo dell’Arcangelo erano particolarmente richieste ed imitate. Un idea molto chiara di quanto il commercio delle statuette dell’Arcangelo fosse ancora fiorente alla fine dell’età moderna ci è fornita anche da una famosa litografia dell’Abbè de Saint-Non, viaggiatore nell’epoca dei Grand Tours, raffigurante l’ingresso della santuario micaelico, nel giorno della festa del santo (1781-1786). Tra la moltitudine di pellegrini che affollano l’entrata e tra venditori di ogni genere, si scorgono, al centro della scena, due asini fiaccati dal peso di due bisacce cariche delle tipiche statuette, riproduzioni della statua del Sansovino. Un discorso a parte merita il pellegrinaggio ad limina Sancti Nicolai, per il quale proprio le fonti archeologiche stanno dando risultati di grande interesse per la definizione della “portata geografica” del culto per il santo vescovo che riposa a Bari. Com’è noto, la traslazione delle spoglie del vescovo di Myra a Bari avvenne nella primavera del 1087 ad opera di una spedizione mercantile barese costituita da tre navi cariche di grano destinato al mercato di Antiochia. I traslatori avrebbero preceduto mercanti veneziani, rivali commerciali dei baresi, essendo venuti a conoscenza del fatto che essi coltivavano lo stesso intento. Quindi, conclusi i loro affari nel mercato antiocheno, si erano affrettati a raggiungere Myra, dove avrebbero finalmente compiuto il “furto sacro”. Quando ebbe luogo la traslazione, il culto per il santo era già molto diffuso anche fuori dai confini dell’Impero bizantino. Chiese con l’intitolazione a San Nicola erano già piuttosto diffuse, in particolare negli ambiti italo-greci, e San Nicola, già patrono dei mercanti e dei marinai, compariva spesso nelle invocazioni dei condottieri variaghi/normanni che avevano prestato servizio nell’esercito bizantino. Tuttavia la propagazione del culto in Occidente fu certamente favorita dalla traslazione delle reliquie a Bari. Anzi, pensiamo che grazie ad essa si accrebbe enormemente. Tutti sappiamo qual è il signum per eccellenza del santuario barese. L’ampollina in vetro che contiene la manna. Cosí era anche nel Medioevo. Basti ricordare la bolla (documento ufficiale del pontefice) del papa Clemente VI del 26 luglio 134, in cui il pontefice si rivolge a “quanti desiderano recarsi alla chiesa del beato Nicola di Bari, ove il corpo del beato confessore Nicola riposa, e dove a causa dello stillare del liquido che incessantemente trasuda, ut pie creditur, dalle ossa del glorioso confessore, grande deve essere il concorso di popolo delle diverse parti del mondo. Quello che però non sappiamo è come queste ampolline nel Medioevo fossero fatte, almeno non lo sappiamo con precisione, in quanto nessuna di esse si è conservata. So che è molto strano ma tutte le ampolle di San Nicola che conosciamo sono più tarde, mentre si conoscono bene tante insegne di pellegrinaggio prodotte proprio in relazione al culto barese, di cui però nelle fonti non c’è traccia. Di esse si conoscono allo stato attuale poco meno di una ventina di esemplari, rinvenuti in varie regioni d’Europa. Il tipo più rappresentato è un’insegna con il bordo superiore ad arco trilobato, in cui San Nicola è raffigurato a mezza figura, secondo la tipica iconografia di matrice orientale formatasi attorno al X-XI secolo, mentre benedice alla greca con la mano destra addotta al petto mentre la mano sinistra regge il Vangelo. Come nelle raffigurazioni bizantine su tavola o nelle pitture parietali, il nome del santo appare abbreviato ai lati dell’immagine: S(anctus) N(icolaus). Non ci soffermiamo affatto su dettagli di carattere iconografico e sulle possibili derivazioni di questi manufatti da un’icona oggetto di venerazione nella basilica durante il XIII secolo. Ci interessa un po’ di più l’area di diffusione di queste insegne, che mostra nuovamente una certa tendenza del santo ad essere particolarmente venerato in ambito slavo e scandinavo. Varie sono le insegne provenienti, infatti da quell’ambito. Tra i rinvenimenti più interessanti c’è sicuramente l’insegna rinvenuta ad Helsingborg nella tomba di un pellegrino. Egli era stato sepolto con ben dieci distintivi cuciti sul petaso, relativi a suantuari francesi, al Volto santo di Lucca ed a santuari romani. Solo dopo una permanenza a Roma, testimoniata da tre insegne di pellegrinaggio relative alle principali basiliche patriarcali, aveva proseguito per Bari, forse la meta di un incredibilmente lungo pellegrinare. Curiosamente molte insegne con l’effigie di San Nicola sono inoltre state trovate a Novgorod, in Russia. Probabilmente si tratta di un prodotto locale che riproduceva, con alcune varianti, le insegne del santuario barese. Segno, comunque, che Bari fosse verosimilmente stata visitata anche da pellegrini provenienti dalle terre dei ’Rus. Ecco tante storie diverse, che possono essere raccontate attraverso ciò che ci resta della devozione popolare. Quella devozione in grado, si badi, di spostare uomini lungo i perigliosi tragitti della fede per mezza Europa e fino alla tanto agognata Terrasanta.